Tuscania | LA STORIA. DALLE ORIGINI AL SECOLO XIV
In epoca etrusca Tuscania è uno dei centri più significativi dell’Etruria meridionale interna. Fino alla metà del nostro secolo l’interesse per questa città è stato piuttosto marginale. Da qualche decennio a questa parte, invece, alcuni studiosi stanno dedicando la loro attenzione, ai diversi aspetti che l’Etruria meridionale interna presenta: di conseguenza l’indagine sul peso, che ha avuto Tuscania in tale contesto, si fa sempre più accurata, grazie anche alla notevole quantità e qualità di reperti che di tanto in tanto vengono in luce.
Oltre ad alcuni reperti paleolitici provenienti dalla contrada “Le Scalette”, è accertata l’esistenza di insediamenti fra l’Età Eneolitica ed il Bronzo Antico, e precisamente nella facies del periodo di Rinaldone (2000 – 1800 a. C.).
Frammenti di ceramica Appenninica decorata e di ceramica Protovillanoviana (Bronzo Finale, 1150-900 a.C.) testimoniano la continuità degli insediamenti umani sul Colle di S. Pietro e nelle zone limitrofe. Sembrerebbe che durante il periodo Villanoviano (900 – 730 a.C.) ci sia stato un abbandono dell’insediamento (come è avvenuto anche per altri centri dell’Etruria meridionale interna), perché gli abitanti si concentrarono in quelle sedi che sarebbero divenute, poi, le grandi città costiere etrusche, ma testimoniano il contrario i resti di capanne villanoviane scoperte nel settore occidentale del Colle di S. Pietro, sul quale viene individuato il primo nucleo abitativo e l’acropoli della futura città.
Grazie a questi e ad altri reperti, agli inizi del periodo Orientalizzante (730 – 570 a. C.) è possibile documentare per Tuscania un fervore di vita intensa. “L’urbanizzazione antica della zona – scrive il prof. Cristofani – va infatti inserita in quel processo di ripopolamento databile nel corso dell’VIII secolo a. C., che porta al costituirsi di piccole città-stato, alcune delle quali, e in particolare Tuscania, posta nel cuore del sistema viario fra Vulci e Tarquinia, Caere e il lago di Bolsena, debbono essersi particolarmente ingrandite proprio per la posizione chiave di controllo che avevano sulle comunicazioni. E alla fine del VII secolo a. C. la stessa Tuscania non doveva essere differente da quel tipo di città (….) provviste della loro fortificazione, di santuari e di una struttura sociale avanzata”.
Lungo il corso del VII secolo a. C. a Tuscania si nota l’influsso delle città con le quali è in stretto contatto: così, la tipologia delle “tombe ogivali a fenditura superiore” ed i relativi corredi rivelano la presenza della cultura tarquiniese; ma non vanno trascurati i reperti provenienti dall’area falisco-capenate.
Nell’Orientalizzazione recente (630 – 580 a. C.) e per tutto il periodo Arcaico (580 – 470 a. C.), Tuscania appare circondata da una fitta rete di insediamenti minori (Respàmpani, Cipollara, Collina d’Arcione, Arlena, S. Giuliano e S. Savino), che gravitano nell’orbita del signore-guerriero della città e che costituiscono veri e propri capisaldi delle strade dirette verso le più grandi metropoli etrusche. L’importanza della città è rilevabile anche dalle numerose necropoli, che, a raggiera, circondano letteralmente l’aggregato urbano (Carcarello, Madonna dell’Olivo, Ara del Tufo, S. Giusto, Solfarata, Sasso Pizzuto, Piantata, S. Lazzaro, Doganelle, Le Guinze, Sughereto, Pian di Mola, La Peschiera, La Castelluzza, Le Ristrette, La Botte, Pantalla, Le Mandre, Macchia Riserva, Campo Gallo, Rosavecchia, Cavallaccia e Carcarella).
Nel VI secolo a.C. la diffusione di tombe a tumulo con tamburo circolare (necropoli dell’Ara del Tufo) e di tombe rupestri con architettura esterna (tombe a dado e a semidado nelle necropoli della Peschiera e di Pian di Mola) dimostrano la presenza insistente di Caere, che in questo secolo sembra penetrare nella fascia dell’Etruria interna, comprendente i centri di S. Giuliano, S. Giovenale, Blera e Tuscania: “Nuovo in particolare è il concetto di una dipendenza economica da Caere, pur limitata all’epoca Arcaica, tanto siamo abituati ad udire che la regione gravitava sotto tutti i riguardi, e non solo geograficamente, ciò che è incontestabile, sulla vicina Tarquinia” (Colonna).
Un ritorno di Tarquinia alla riconquista dei territori dell’Etruria meridionale interna è fuori discussione, ma è solo a partire dalla crisi dei commerci marittimi che investe le grandi città della costa tirrenica, soprattutto dopo la sconfitta che esse subirono a Cuma nel 474 a. C. da parte della flotta dei Cumani e dei Siracusani: in questo periodo Tarquinia, essendole preclusa la via del mare, cominciò a rivolgersi verso il suo entroterra e a dominare incontrastata su tutto il territorio fino al lago di Vico, ai monti Cimini, al lago di Bolsena.
Dal IV secolo a. C. in poi, il triangolo Tuscania – Norchia – Castel d’Asso, periferico in epoca Arcaica, balzò in primo piano sotto l’assetto economico, con lo sviluppo dell’agricoltura ma, soprattutto, con i commerci, “proprio perché Tarquinia – scrive il prof. Colonna – superò la crisi dei commerci marittimi, sviluppando e potenziando le relazioni continentali“.
Nell’architettura funeraria a Tuscania prevalsero (come a Tarquinia) le tombe a camera unica con banchine e sarcofagi: i corredi funerari di questo periodo evidenziano i contatti con Tarquinia, ma anche con Vulci e l’area del popolo falisco; nuclei di artigiani locali (di scuola tarquiniese) produssero incessantemente meravigliosi sarcofagi in nenfro per le famiglie aristocratiche locali, come i Curunas, i Vipinana, gli Hermelus.
Dopo la guerra di Roma contro l’Etruria (312 – 308 a. C.), la stella di Tarquinia cominciò lentamente a declinare. Con la perdita della sua potenza parallelamente si determinò anche uno spostamento del ceto dirigente dalla città verso la campagna.
I centri dell’entroterra acquistarono una certa autonomia ed affermarono il loro autogoverno: in questo periodo incontriamo, sempre più frequenti, le iscrizioni riportanti le cariche magistratuali che il defunto ha ricoperto in vita, a Tuscania, a Norchia, a Bomarzo e perfino nella piccola Musarna. A Tuscania troviamo il “pretore edile” (zil marunuchva), il “pritano” (zilath eprthne), che era forse la magistratura più importante della città, il magister (macstre) e l’eisnev (una carica sacerdotale); importante era anche il tamera zelarvenas (un collegio composto di due membri con carattere sacerdotale o pubblico); la carica di cepta rappresentava, infine, una carica sacerdotale. Nel corso del III secolo a. C., accanto alle famiglie già nominate, troviamo i Flenchrinas, i Velisina, i Ceise, gli Uple, i Treptie e gli Ancna.
Se Tarquinia non riuscì più a tenere sotto controllo il territorio, fu però Roma a subentrare al suo posto nell’Etruria meridionale. Possiamo datare intorno al 280 a. C. il dominio effettivo di Roma.
Le famiglie aristocratiche tuscanesi non si opposero, anzi favorirono l’egemonia di Roma. L’Apertura della Via Clodia (tra il 225 e il 183 a.C.), che ricalcava parte della precedente viabilità etrusca, è vista dal prof. Colonna come un riconoscimento, una concessione benevola di Roma verso quei centri dell’Etruria interna, che avevano mostrato lealtà, facilitandone l’espansione (Blera, Norchia, Tuscania, Castro (=Statonia?) e Sovana). Tra le famiglie più cospicue di questo periodo troviamo gli Statlane, i Rufre, i Nerina, gli Hintius, i Puplina, i Ceisinas, i Vipe, i Sisina, i Cae e diverse altre. Conosciamo anche qualche nome delle famiglie che vivevano nei maggiori centri del territorio tuscanese, come i Ceisu a Roccarespàmpani; gli Heiri e i Thuethlies a Collina d’Arcione; i Satna e i Pelies ad Arlena; gli Arinas, i Pepna, i Ceisu, gli Apuna, i Ritna, i Cales alla Cipollara.
A partire dalla fine del III secolo a.C. e per tutto il II, si sviluppa a Tuscania una fabbrica di sarcofagi in terracotta, eseguiti a parti staccate e componibili: ve ne sono diversi al Museo Nazionale Tuscanese; ricordo solo quello di una donna, di cui il compianto prof. Marchese così scrive: “Il volto quadrato e plebeo di una arricchita contadina, dagli occhi bovini, dal naso largo e dalla bocca imperiosa, ricco di orpello, è di tale vivacità e forza espressiva da aver suggerito per tale sarcofago l’appellativo di Sarcofago della Suocera“.
La guerra sociale (90 – 88 a.C.) segnò la fine del mondo etrusco e la sua completa romanizzazione: Tuscania venne inclusa nella Tribù Stellatina (come tutto il territorio ex-tarquiniese) e fu elevata al rango di Municipio; numerose epigrafi ci fanno conoscere alcune cariche amministrative: ad esempio quella dei Quattuorviri iure dicundo, la massima autorità del Municipio, e quella dei Decurioni, corrispondente al piccolo Senato locale. Continuano, però, a sopravvivere le usanze sacrali: troviamo così il “Collegio degli Aruspici“, i famosi sacerdoti-indovini tenuti in notevole considerazione a Roma.
Prima e dopo l’èra cristiana, Tuscania ricevette un notevole impulso e poté progredire soprattutto grazie al fatto di trovarsi lungo il tracciato della via Clodia: per questa sua posizione venne scelta come sede di diocesi, il cui vescovo esercitava la giurisdizione in un territorio corrispondente a quello della ex-tribù Stellatina: il grande quadrilatero formato dal fiume Fiora fino al lago di Bolsena; da questo fino al lago di Vico e giù giù fino al mar Tirreno, seguendo il corso del fiume Mignone.
La vita economica e sociale riceveva un’impronta tipicamente longobarda, non solo durante l’occupazione dei Longobardi stessi, ma anche dopo che la città venne assegnata allo Stato della Chiesa da parte di Carlo Magno e dei suoi immediati successori.
Ancora nel IX secolo, Tuscania presentava l’assetto urbanistico che aveva durante il Basso Impero ma, dopo la rinascita dell’XI secolo, la cinta muraria si allargò, raggiungendo un perimetro di km. 4,700 e l’abitato ricoprì una superficie di 62 ettari. Esautorato il vescovo dei poteri civili, iniziò lentamente a funzionare il libero Comune, con i suoi statuti e le tipiche magistrature comunali.
Il XIII secolo vide Tuscania in fermento, anche per le lotte intestine tra le famiglie ghibelline (i Cerasa, gli Albonetti) e quelle guelfe capeggiate dai Della Rocca, ma vide pure il sorgere di nuovi monumenti, come il palazzo comunale del Rivellino (oggi ridotto ad un rudere), accanto a quelli religiosi già esistenti: le stupende basiliche di S. Pietro e di S. Maria Maggiore.
A queste opere seguirono quasi subito la Chiesa di S. Marco, della Rosa, di S. Silvestro, di S. Giacomo (ristrutturata alla fine del Cinquecento), di S. Biagio, di S. Francesco e di tante altre oggi scomparse o ristrutturate.
Un pullulare di castelli sparsi nel territorio (Montebello, Carcarella, Canino, Civitella (= Arlena), Ghezzo, Tessennano, Ancarano, Pian Fagiano, S. Savino) stimolava l’iniziativa economica della nobiltà fondiaria locale.
Nel maggio del 1300 Tuscania (o meglio Toscanella, come si chiamava la città fin dagli inizi del Duecento) venne occupata dalle truppe romane del Campidoglio: fu questo un decisivo evento per la storia del Trecento tuscanese.
Nell’agosto 1319 il papa Giovanni XXII nominò “vicario del Patrimonio” Guitto Farnese, vescovo d’Orvieto. Proprio agli inizi del vicariato di Guitto, Tuscania, ormai sottomessa al Campidoglio, fu nuovamente sconvolta da lotte interne: scacciati i guelfi, i ghibellini ripresero il potere.
Il vicario Guitto non intendeva assumersi drastiche responsabilità contro il Campidoglio e contro i ghibellini: voleva che gli ordini arrivassero da Avignone, dove ormai il Papa dimorava da lungo tempo.
Guitto raccolse, pertanto, molte notizie sulla situazione nel Patrimonio con le quali compose una relazione e la inviò al Papa per metterlo al corrente sul reale stato delle città e dei castelli.
Nella relazione egli parla degli obblighi economici che ciascun comune dovrebbe rispettare; dice di chi paga e di chi non paga, a causa dei continui soprusi che il Campidoglio compie. Tra chi non paga c’era Tuscania.
“Questa città, scrive Guitto, appartiene alla Chiesa e dovrebbe esserle soggetta. Durante l’inverno essa ospitava [alla fine del Duecento] la curia generale del Patrimonio, che, nei periodi di freddo più intenso, era solita trasferirsi là da Montefiascone. Tuscania – scrive Guitto – pagava regolarmente le imposte della “tallia militum”, 80 libbre di denari, del “focatico”, 160 libbre, e delle “procurazioni”, 50 libbre (*) ; così pure versava alla Camera Apostolica i proventi riscossi nelle cause civili e criminali, celebrate a Tuscania.
I Romani, però, al tempo di Bonifacio VIII (1300), mandarono un grande esercito contro la città; i Tuscanesi, costretti dalla violenza, si sottomisero e si obbligarono nei confronti del Campidoglio a pagare annualmente 1.000 libbre di tributo.
Da quell’anno, i Tuscanesi non solo non effettuarono più alla Chiesa i dovuti versamenti ma, con l’appoggio del Campidoglio, essi arrecarono alla Curia e ai territori circostanti ogni sorta di danni e di offese; sono altezzosi e offrono ospitalità alle milizie capitoline, che fanno di Tuscania la base per le loro scorrerie.
“Essa appare utilissima – prosegue Guitto – anzi, quasi necessaria alla vitalità del Patrimonio, perché è collocata proprio nel suo punto centrale, possiede un territorio fertile ed è più adatta del castello di Montefiascone per trascorrere l’inverno da parte del rettore e della sua curia. I Tuscanesi, da parte loro, se potessero, si scrollerebbero di dosso tanto volentieri il giogo del Campidoglio, per tornare alla fedeltà alla Chiesa; ma lo farebbero solo a condizione che, poi, noi fossimo in grado di difenderli dalle inevitabili rappresaglie dei Romani.
Proprio in questi giorni – conclude Guitto nel 1321 – ho fatto convocare alcuni Tuscanesi, in gran segreto: si è parlato di come poter togliere la Città ai Romani; si è preparato un piano per aprire le porte della Città all’esercito della Chiesa, ma rimane difficoltosa, poi, la sua protezione contro le ire dei Romani, che, certamente, in breve tempo, la recupererebbero“.
Ma questa relazione rimase lettera morta. Tuscania continuo per molti anni a rimanere sottomessa al Campidoglio fino al 1354, allorché il card. Egidio d’Albornoz la prese e la recuperò definitivamente alla Chiesa. Ma con le carestie del Trecento e con la “peste nera” del 1349, la popolazione incominciò a diminuire, tanto che si dovette restringere la cerchia muraria, tagliando fuori il Quartiere di Civita (attuali colli di S. Pietro con le valli di S. Angelo e di S. Maria).
La seconda metà del Trecento fu caratterizzata dalla discesa di molte compagnie di soldati di ventura che spadroneggiarono nel Patrimonio.
Comunque, dopo che l’Albornoz agevolò il ritorno dei pontefici a Roma, fu il papa Urbano V ad approfittarne e il 4 giugno 1367 sbarcò a Corneto. Trascorse il 7 e l’8 a Tuscania, ospite dei Francescani presso il loro convento della Madonna dell’Olivo, posto ad un paio di chilometri prima di giungere a Tuscania per chi proveniva da Corneto. Per l’ospitalità ricevuta il Papa donò ai Francescani 25 fiorini d’oro; altri 10 ne regalò alle monache Clarisse Urbaniste, perché provvidero alla cucina e alle faccende domestiche.
Qui Urbano V ricevette il beato Giovanni Colombini, che aveva fondato l’Ordine dei Gesuati, e gli approvò la “regola”. Il convento dei Gesuati, a Tuscania, era nel terziere di Poggio, in contrada della Rocca: al Museo si conserva un pezzo d’architrave della porta del convento stesso.
Da Viterbo, poi, il Papa andò a Roma; ma fu un ritorno breve perché, il 17 gennaio 1370, era di nuovo sulla via di Avignone. Altri disordini si preparavano nel Patrimonio.
A procurarli erano gli stessi rappresentanti papali, che amministravano, rubando spudoratamente. Tutti gli storici, a questo punto, fanno il nome di un viterbese, Angelo Tavernini, che, dal 1350, faceva il tesoriere del Patrimonio. Che fosse un ladro e uno strozzino era notorio (anche Piansano era divenuto suo), ma non era certamente il solo! Gli animi erano giunti sull’orlo della sopportazione.
Il grido di guerra quella volta partì da Firenze, che ne aveva fin troppo delle pretese dei legati pontifici.
La “Guerra degli Otto Santi“, appena scoppiò nel 1375, da Firenze si ripercosse immediatamente nel Patrimonio, dove prese le redini della rivolta il prefetto Francesco di Vico, il figlio di Giovanni IlI, morto tempo prima. Viterbo lo acclamò come ” signore “.
A Tuscania un moto popolare dei primi di dicembre scacciò i pontifici ed aprì le porte a Francesco. Lo stesso fecero Corneto ed altri castelli. Il rettore non aveva forze sufficienti per opporsi; allora si chiamò l’esercito del Campidoglio, guidato da Giovanni Cenci, che riuscì a recuperare Tuscania, ma Francesco di Vico continuava a dominare indisturbato.
Questo e molti altri problemi convinsero il Papa a partire per l’Italia. Fu la volta decisiva, perché non ritornò più ad Avignone. Egli, però, morì poco dopo (27 marzo 1378).
Al successore Urbano VI, fu subito opposto un altro Papa, Clemente VII, e si aprì uno Scisma che doveva dilaniare la Chiesa per 40 anni.
Il primo restò a Roma, il secondo andò ad Avignone. Francesco di Vico, manco a dirlo, fu dalla parte del Papa avignonese. Lo scisma favoriva Francesco, che si dette da fare per recuperare il terreno perduto. Nel novembre 1378, cercò subito di riassoggettare Tuscania servendosi anche delle milizie dei soldati bréttoni, lasciategli dal Papa avignonese.
A Tuscania qualcuno gli aveva promesso di aprire, nottetempo, le porte. Visto che queste erano aperte, infatti, Francesco fece entrare una parte delle sue truppe, ma. . . era una trappola! Le porte furono subito richiuse e un esercito di Tuscanesi piombò sui malcapitati, facendone una strage: 50 morti. Gonfio di rabbia, Francesco andò a scaricarla sui poveri castelli di Ancarano e Rocca Glori.
La guerriglia continuò per diversi anni. Il territorio di Tuscania subì continuamente dei guasti da parte di Francesco, che, ripresa la Città il 3 aprile 1386, la tenne fino alla sua morte, quando fu massacrato a furor di popolo, in Viterbo, l’8 maggio 1387.
Il nipote, Giovanni IV di Sciarra di Vico, continuò sulle orme dello zio ma, alla fine, dato che nel Patrimonio il séguito del Papa romano (Bonifacio IX) andava aumentando notevolmente, egli chiese la pace (1396), staccandosi dal Papa avignonese, troppo lontano.
Tuscania passava continuamente da una “sottomissione” ad una “liberazione”, tanto che a ricordarle dettagliatamente ci si ridurrebbe ad aridi e noiosi elenchi.
Accenniamo solo all’occupazione del capitano di ventura Bernardone della Sarre, nel giugno-luglio 1395, ma non fu l’ultima, perché tutta la prima metà del secolo successivo fu caratterizzata da altre occupazioni da parte di altri capitani di ventura più o meno famosi.
(*) La “tallia militum” era l’imposta che ogni comune doveva pagare in base al contingente militare che era tenuto a mantenere (in caso di guerra si mandavano uomini, in pace si pagava tale imposta); il “focatico” corrispondeva all’imposta di famiglia, soppressa qualche anno fa; la “procurazione” era il dono in danaro (obbligatorio) che ciascun comune doveva versare “una tantum” al nuovo rettore del Patrimonio, quando entrava in carica.